UN DIALOGO CON UGO MORELLI

 

Prof. Morelli, il dialogo in politica è direttamente associato al conflitto, parola che nel linguaggio comune ha tuttavia un’accezione negativa.

A proposito del conflitto Bion scrive: il conflitto ha bisogno di conoscere, il conflitto ha bisogno di negare”. Ho riflettuto a lungo su queste due frasi. Significa che noi di fronte al conflitto siamo come se fossimo di fronte a un bivio e la prima tentazione che spesso predomina è negare il conflitto, astenersi dall’affrontarlo, perché naturalmente salvaguardiamo il cosiddetto quieto vivere, salvaguardiamo la cosiddetta forza dell'abitudine, e le forme di astensione e di negazione sono tantissime. Pensate solo a certe battute a proposito di linguaggio: diciamo una cosa che avvertiamo creare un disagio e immediatamente diciamo “stavo solo scherzando” oppure “no ma ho sbagliato, ma non volevo dire questo”. Questa interlocuzione evidenzia una propensione predominante alla negazione, all'astensione ed al non  accesso. La questione del conflitto è prima di tutto un problema di accessibilità cioè di educazione, di affinamento della nostra capacità di accogliere il conflitto come opportunità e di farne una buona elaborazione.

La seconda questione è quella della buona gestione perché la buona gestione del conflitto, perché non scada in guerra in antagonismo, consiste in una cosa molto impegnativa che è l'arte della politica, è il riconoscere nella posizione altrui almeno una buona ragione, che non vuol dire buona dal mio punto di vista ma buona dal suo punto di vista, perché questa è l'unica condizione perché il dialogo possa proseguire. Anche la più opposta delle posizioni rispetto alla mia è comunque una posizione di un essere umano come me.

In questo ci aiuta Terenzio: nulla di ciò che è umano mi è estraneo .

Quanto pesa il conflitto che abbiamo con noi stessi nel conflitto con gli altri, in altre parole, quanto è importante risolvere il conflitto prima con noi stessi, prima di riuscire ad entrare in contatto con gli altri.

Questa domanda è una domanda cruciale  nel senso che la buona gestione del conflitto intrapsichico è la base per la buona gestione di ogni altra forma di conflitto. Noi distinguiamo studiando questo fenomeno, cinque livelli: 1) livello intrapsichico; 2) livello interpersonale, cioè di coppia, non necessariamente marito moglie ma nel senso di due; 3) livello di gruppo; 4) livello istituzionale, l'ospedale la scuola l'ufficio eccetera; 5) livello collettivo, conflitto sociale,  quello che riguarda il livello come può essere una comunità, un comune, un territorio.

La base essenziale è la dimensione intrapsichica. Come dice il grande Woody Allen in un film che si chiama Io & Annie  mi capita spesso di non essere d'accordo con me stesso”, e questo è un dato che dobbiamo tenere presente, nel senso che ci sono sempre parti di noi che cercano di contenere altre parti, a volte cercano di parassitare altre parti e non solo, a volte cercano addirittura di sottoporre a una forma mafiosa altre parti. Mafiosa significa che vogliono proteggere un'altra parte di me e quindi quella parte che protegge l'altra mi induce probabilmente a non essere me stesso dentro le situazioni o a non contenere sufficientemente per esempio l'equilibrio nel linguaggio. Ma la cosa più impegnativa è la parte di me che impedisce all'altra parte di perseguire la bellezza: l'abbiamo chiamata angoscia della bellezza, ovverosia quell'angoscia che prende quando ci mettiamo in testa un'idea meravigliosa “io potrei fare questo” e un’altra parte di noi dice “ma figurati, ma non sarai mica tu capace di fare quella cosa lì” e quindi ci presenta il teatro degli ostacoli. Chissà quante volte vi sarà passato per la mente “ma non saremo mica noi quelli che riusciranno a”, ecco questo è l'aspetto che mi sta più a cuore del conflitto intrapsichico perché noi siamo quelli del possibile, nel senso che come dice Musil ne L'uomo senza qualità, “solo chi detiene il senso del possibile ha in mano il futuro” e questa è una cosa che dobbiamo tenere presente.

Come è possibile evitare la contrapposizione violenta nel linguaggio politico, nel tempo in cui è sdoganato anche il partito dell'odio?

Io ho lavorato molto nella mediazione dei conflitti l'ho fatto in particolare in serbo Bosnia su un incarico Unesco per la riattivazione delle scuole, per cercare di evitare che nascessero le scuole etniche, fu una cosa particolarmente dura però ce la facemmo. L'odio non è il contrario dell’amore, è l'indifferenza il contrario dell’amore. L'indignazione e l'odio sono un modo di considerare l'altro in ragione di ciò che l'altro porta in noi in termini affettivi. L'affettività non è una carezzina fatta al cagnolino e a non so chi, affettività viene da adfero in latino, e fero vuol dire portare ad  è un complemento di moto a luogo e ciò che l'altro porta in noi, ciò che noi portiamo nell'altro con la nostra presenza. E quindi l'odio ha una sua cittadinanza nelle dinamiche affettive interpersonali e c'è tra l'odio e l'indifferenza, che è la vera grave problematica perché vuol dire lo “struzzismo”, vuol dire nascondere la testa sotto la sabbia, vuol dire che ciò che accade non fa differenza.  Allora è chiaro che però questa parola è come la parola aggressività - la parola aggressività non è il problema perché noi siamo una specie aggressiva, adgredior vuol dire avvicinarsi e anche per amarci e fare dei figli abbiamo un processo di adgredior – è la distruttività il problema e quindi l'odio sta all'indifferenza come l'aggressività sta alla distruttività. Noi dobbiamo cercare di contenere la distruttività, così come dobbiamo cercare di contenere indifferenza, ma non l'indignazione.

Nel dialogo con l’altro ci si imbatte spesso nel muro della saturazione, la sensazione che chi sta ascoltando in realtà già pensa al tipo di risposta che deve dare, allora come si può entrare in dialogo superando questo muro?

Il problema fondamentale è l'esercizio del dubbio cioè riuscire a creare almeno il dubbio, anche se ci sono persone che al dubbio non hanno intenzione di accedere, non hanno voglia di farlo non hanno la possibilità intima di farlo, sono fermamente convinti delle loro cose. La struttura portante della personalità totalitaria che orienta le forme razziste è principalmente una struttura difensiva che ha profonde radici di carattere psicologico e psicoanalitico. Non possiamo pensare di poter arrivare a tutti : “fare politica è il contrario del parlare per convincere”. Dobbiamo ricorrere all’ironia, che è una risorsa fondamentale, abbiamo bisogno di leggerezza. La struttura del pregiudizio è cieca, parlare per convincere non produce effetti, l’accanimento terapeutico e l'accanimento pedagogico non danno frutti. Allora noi abbiamo bisogno di ascoltare, se c'è uno spazio minimo di zona grigia è lì che dobbiamo lavorare, ascoltando, perché ascoltando l'altro prima o poi apre uno spiraglio.

Ma non dovrebbe essere sufficiente dire semplicemente la verità, riferire come stanno veramente le cose, per poter convincere l’altro che siamo nel giusto, insomma la verità non vince sempre?

Non possiamo immaginare di fare un buon lavoro nel linguaggio in politica se assumiamo la verità come riferimento perché la verità è la nostra verità. Le persone sono piene di saperi spontanei e hanno il loro punto di vista sulle cose, se vogliamo attuare  un dialogo efficace e addirittura  una condivisione, abbiamo bisogno di partire dal punto di vista dell’altro, conoscere qual è la sua verità. La verità con la V maiuscola attiene all'ambito della fede: noi abbiamo alle spalle una tradizione nella quale la politica era avere una fede in un partito, avere una fede in un'ideologia, questa cosa purtroppo, o meno male, non c'è più. Sui singoli problemi, sulle singole questioni ognuno ha un punto di vista. Se io vado dal medico ed ho un problema di obesità acclarato e quindi non riesco ad astenermi dal cibo, se lui vuole lavorare con me in un modo clinico (Clinè vuol dire chinarsi sull'altro e non riguarda solo la medicina ma riguarda anche la politica) la prima cosa che probabilmente farà sarà quella di cercare di capire perché io non riesco a staccarmi da quel cibo.  Ecco allora questo è quello che mi sento di dire: abbiamo bisogno di avere una posizione clinica, di ascoltare il punto di vista degli altri.

In una lettera agli Efesini San Paolo scrive: “fatevi tutto a tutti per conquistare ad ogni costo qualcuno”. Cosa vuol dire questo fatevi tutto a tutti? Vuol dire che noi se una quota parte importante della popolazione è convinta di una certa cosa, la prima cosa che dobbiamo fare è chinarci sulla loro convinzione, certo avendo la nostra, però il problema fondamentale è trovare almeno un minimo di terreno comune su cui lavorare.

Come si fa secondo lei ad essere gentili ma potenti, nel senso di avere la possibilità di fare gentilmente, senza essere costretti ad un confinamento quasi naturale. In altre parole, essere gentili è un limite?

Per essere gentili ma potenti è necessario riflettere su che cosa vuol dire essere potenti: esiste nel potere una parte buona, un esercizio buono del potere ed un esercizio malato del potere. L’esercizio buono del potere è fatto di partecipazione, di ascolto e di reciprocità. Sono parole molto facili da dire ma molto difficili da praticare perché una reciprocità effettiva richiede un fortissimo impegno. L'esercizio cattivo del potere è basato sul monopolio, sull'esclusione. Con il mestiere che faccio ho un potere nei confronti dei miei studenti perché la relazione educativa, pur essendo loro adulti, è una relazione asimmetrica. C'è un solo modo di praticare quel potere in modo efficace che è equilibrarlo continuamente con la responsabilità, cioè con il rispondere sapendo che noi siamo sempre ospiti dell'altro. Pensiamo a Gandhi: quanta possibilità aveva un uomo scalzo con un bastone di legno in mano insieme a tanti altri uomini scalzi con bastone di legno in mano di cacciare l'esercito inglese? Quella è una forma di gentilezza particolarmente potente, ma proprio perché si dà una spinta gentile che ancora una volta prima ancora che concentrarsi sull'altro si concentra su se stesso e sull'obiettivo. Se mi chiede qual è un modo per essere gentile io direi: fare un buon lavoro con se stessi, cioè concentrarsi su se stessi e farsi forza interna insieme ai compagni di strada, perché quelli sono molto importanti, e avere in mente l'obiettivo, il compito perché spesso chi ci fa diventare non gentili è l'altro col suo comportamento. Non possiamo rinunciare alla potenza e al potere se vogliamo cambiare le cose. C'è sul potere un moralismo che io trovo insopportabile sempre, perché si identifica il potere con il dominio sull'altro, no! Il potere è una delle risorse più straordinarie che abbiamo a disposizione.

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